Paolo Crepet • Psichiatra, sociologo e opinionista
“All’inizio abbiamo dato ai giovani cose necessarie. Poi, man mano, cose assolutamente non necessarie. E abbiamo dato tutto. ”
Abbiamo incontrato Paolo Crepet in occasione dell'inaugurazione della mostra voluta da Parmacotto Group dal titolo “The People in Between”. Un reportage del fotografo Marco Gualazzini su zone del mondo toccate da crisi umanitarie e conflitti. Un’occasione speciale per riflettere sulle grandi tematiche del coraggio e dell’umanità, con particolare attenzione al mondo dei giovani.
“La giovinezza è sempre stata l'età dell'ambizione. L'ambizione di andare a vedere un posto, di girare il mondo, di conoscersi tra ragazzi e ragazze, di studiare una cosa diversa. Saper fare sport in maniera migliore degli altri, più performante: è tutto un'ambizione.
La strategia del togliere non è importante, è indispensabile. L'abbiamo visto da quando abbiamo cominciato a dare. Abbiamo dato all'inizio cose necessarie. Poi, man mano, cose assolutamente non necessarie. E abbiamo dato tutto. In quel momento è cominciata la discesa del desiderio. Il desiderio non si è più creato, e non creandosi desiderio non si crea passione. E non creandosi passione, non si crea un progetto di vita. È tutta una catena. A quel punto succede una cosa strana: i ragazzi abbassano tragicamente le loro ambizioni. Non essendoci più questa catena che crea desiderio, passione e progetto di vita, non c’è più l'ambizione. Quindi i ragazzi si fanno bastare ciò che c'è. Questo è terribile perché basato su un falso: non è vero che c'è così tanto.
Oggi ne abbiamo la prova: pensavamo di essere in pace e di esserlo per millenni. Chi avrebbe pensato sei mesi fa che il pane sarebbe costato il doppio? E invece, ad un certo punto, è arrivato qualcosa di incredibile come la guerra, che mette in discussione la sicurezza della vita di tutti. Se tu non hai gli anticorpi per reagire agli eventi negativi della vita, cosa succede di te? Se ti ho dato tutto, ti tolgo gli anticorpi. Se io abolisco il “quattro” a scuola e tengo solo il “sei”, non ti faccio un piacere perché prima o poi un quattro nella vita ti capiterà. E se il primo quattro è a 35 anni, rischi di fare una brutta fine. Io una volta ho preso “uno” in matematica, e infatti sono stato forgiato.”
“Il coraggio di essere buoni non è il coraggio di essere pii, è il coraggio di essere altruisti, il coraggio di credere nelle persone. In un’altra parola potrei dire che dobbiamo riesumare, perché è mezzo morto, il verbo fidarsi. Questo con la pandemia è andato in crisi: abbiamo cominciato a non fidarci più degli altri e questa diffidenza ha creato allontanamento. Naturalmente, c’è anche chi ci ha guadagnato. Chi vede il digitale gioca sull’allontanamento, sull’isolamento sociale, sull’idea che tanto a casa sul divano puoi avere tutto: dal film, alla cena, agli amici che guardano la partita in contemporanea, ma non sono lì. E la cena non è in una trattoria a fare quattro chiacchere con qualcuno che magari non hai mai conosciuto e che ti sorprende, che ti dice una parola di più. Ecco cosa vuol dire bontà. Bontà vuol dire buon senso, vuol dire intelligenza. Io penso che convenga essere buoni. Quando mi invitano a parlare, il 98% delle volte ti dico di sì. L’altro giorno ero in un paesino che anche quando ci sono andato non ho capito dov’era. Perché se mi metto a dire: “Oddio sono 340 chilometri", “Oddio è un paese di 2000 abitanti, non ci sarà nessuno”, è finita. E invece spesso è meglio lì che non alla scala di Milano, perché arriva tanta gente con passione, che ha fatto chilometri per sentirti e ha voglia di conoscerti e di stringerti la mano con sincerità.”
“Sì, ci vuole coraggio per essere buoni, perché abbiamo fatto molta pubblicità e molto marketing sulla cattiveria, sull’egoismo e sulla violenza. Basterebbe guardare i ragazzini che si menano la sera: c’è molta pubblicità su quello. Ne parliamo moltissimo. A scuola, chi è buono, non fa danni e non è violento è più facile che sia vittima di bullismo. Mentre noi celebriamo la violenza anche quando non vogliamo farlo. Così come adesso: stiamo celebrando la guerra perché non parliamo altro che di quella.
Un mio vecchio professore a Londra mi diceva: “Alone, man is nothing”, ovvero da solo l’uomo è nulla. Quando lo sentii per la prima volta pensai che fosse un insulto all’intelligenza, ma non era così. L’intelligenza umana è un’intelligenza collettiva: Picasso da solo, se si fosse trovato in un’isola nel deserto, non avrebbe fatto niente. In mezzo agli altri ha iniziato con il classicismo, poi ha pensato che forse fosse meglio inventarsi qualche altra cosa, poi ha visto una mostra di arte africana dove c’erano le sculture con le facce delle donne divise in quattro, così tornato a casa ha pensato di creare una donna divisa in otto. E in questo modo è nato il cubismo. Non c’è niente che nasce da solo, nessuno è così intelligente, occorre avere dei modelli.
Lo diceva Steve Jobs: “La creatività dov’è? Al piano più basso del mio building, al piano terra dove c’è la caffetteria. È lì la creatività.”
Tu entri dentro la caffetteria, incontri una ragazza, le chiedi cosa fai e lei te lo dice e poi tornato a casa pensi: “Ma sai che stasera posso sviluppare meglio quest’idea?”. Funziona così, è la contaminazione: i vecchi contadini facevano gli innesti per creare la buona frutta perché avevano bisogno di piante diverse che se messe insieme potevano fare qualcosa. Magari il 99% delle volte usciva una porcheria, ma quella volta che funzionava, usciva una mela pazzesca.
I genetisti la chiamano cross fertilisation, cioè l’idea che da soli non si può stare. Noi vogliamo combattere la socialità a vantaggio della solitudine digitale. Voi pensate che il prosciutto si possa vendere con il metaverso? Io francamente non ci credo. Voi pensate che su Netflix ci siano i primi capolavori di Bertolucci? Non ci sono, questo è un crimine contro l’umanità perché un ragazzo deve poter vedere “Prima della rivoluzione” o “La strategia del ragno”. Perché sono capolavori che ti fanno capire cosa vuol dire cercare un padre che non hai mai avuto. Tutto questo per dire che quello che dobbiamo fare è ritornare al senso vero delle cose.
Il coraggio di essere buoni è determinante. È quello che hanno capito tutti i buoni pedagogisti di questo mondo: bisogna credere nei ragazzi, per far sì che loro possano credere nel prossimo. Se ognuno credesse solo a sé stesso, diventerebbe il regno dell’autarchia.”