Nicola Ferrigni • Sociologo, Professore Associato di Sociologia presso l’Università degli Studi “Link Campus University” di Roma
“C’era una volta il bullismo. E poi il cyberbullismo. Sembra passato un secolo, e invece parliamo di appena pochi anni fa.”
Sembra passato un secolo da quando questo fenomeno riempiva le pagine dei giornali, popolava gli incubi di studenti, genitori e insegnanti, infuocava il dibattito pubblico, sollecitando da una parte la produzione di campagne di sensibilizzazione, dall’altra ipotesi normative finalizzate tanto a sanzionare quanto a prevenire. C’è stato, infatti, un momento della storia della nostra società in cui il bullismo è stato percepito come la perfetta, eclatante incarnazione della devianza adolescenziale, tanto più grave per l’intenzionalità con cui esso veniva realizzato: per quel desiderio di “agire contro qualcuno” che ne era al fondamento.
Poi, complice il diffondersi delle tecnologie, è venuta l’ascesa del cyberbullismo, quest’ultimo dapprima percepito come una forma di bullismo perpetrata attraverso la Rete, e poi assurto al rango di fenomeno individuale e diverso, espressione di un agire “per qualcosa” oltre che “contro qualcuno”. Rispetto al bullismo “tradizionale”, il cyberbullismo re-inventa infatti il concetto di aggressione, trasformandola da “azione solo contro qualcuno” in “azione anche per sé stessi”; re-itera il concetto di ripetitività, da ripetizione nello spazio fisico a riproducibilità nello spazio virtuale; re-agisce al concetto di squilibrio di potere, mutuando il potere della forza fisica nel potere del “talento cyber”.
Ma quale “talento”? Certamente una “forma deviata di talent show”, asservita a un bisogno di “premiare sé stessi” che va di pari passo - quando non addirittura prevarica - il desiderio di “punire qualcuno”. In questa “forma distorta di talent show”, ogni attore gioca un ruolo preciso: il pubblico in studio corrisponde infatti a chi visualizza i contenuti di cyberbullismo postati in Rete (dunque, chi assiste alla performance); la giuria coincide invece con chi mette “like” o commenta (dunque, chi esprime un giudizio sulla performance); infine, il pubblico da casa, composto da chi condivide i contenuti (dunque chi, con il proprio voto, decreta il successo di una performance).
A conferma di ciò, i dati 2020 dell’Osservatorio “Generazione Proteo” registravano una percentuale di vittime di cyberbullismo drammatica nelle proprie dimensioni (1 adolescente su 4 dichiarava infatti di esserne stato vittima) e per la leggerezza con cui viene approcciato (il 27,8% lo definisce “un gioco”), e altrettanto preoccupante per i processi che tale fenomeno appariva in grado di attivare: una pericolosa spirale di aggressività, tale per cui il 17,3% delle vittime dichiarava di aver reagito alle violenze subite comportandosi a sua volta da cyberbullo.
C’era una volta il bullismo. E poi il cyberbullismo.
Sembra passato un secolo, e invece parliamo di appena pochi anni fa. In questi ultimi due anni, infatti, complice una pandemia che ha completamente ridefinito il nostro “essere al mondo”, anche il bullismo e il cyberbullismo sembrano essersi trasformati, aver cambiato pelle, essersi rimodellati adeguandosi alle “regole” di una società sempre più “piattaformizzata” e polarizzata.
Da una parte, infatti, come molti altri fenomeni della nostra quotidianità, anche il bullismo e il cyberbullismo hanno ridefinito la propria tradizionale strategia della spettacolarizzazione del gesto eclatante, contestualizzandola in una logica di “serialità”: l’entità del danno provocato è infatti direttamente proporzionale alla sua ripetizione. Dall’altra parte, in linea con una società sempre più polarizzata, anche bullismo e cyberbullismo tendono a estremizzarsi, sfociando nella violenza allo stato puro. Quella violenza che il dibattito pubblico tende a ricondurre al fenomeno delle baby gang, di cui 1 adolescente su 3 (38,5%) teme di essere vittima.
In conclusione, guardando all’evoluzione dei fenomeni della devianza/violenza adolescenziale degli ultimi anni, credo si possa affermare che a un bullismo/cyberbullismo subdolo, latente, si aggiunge oggi una violenza dichiarata, manifesta, ed è proprio questa deriva che mina in profondità la già precaria condizione di (in)sicurezza in cui vivono i nostri adolescenti.